Il partner di Array avv. Giovanni Battista Gallus e l’avv. Francesco Paolo Micozzi commentano la sentenza della Corte di giustizia dell’UE del 13 maggio 2014 nella Causa C-131/12

La sentenza della Corte Europea di Giustizia, Google Spain e Google Inc. /c AEPD e Gonzalez ha scatenato una ridda di commenti, molti dei quali seriamente preoccupati per la libertà d’informazione in rete.

Guido Scorza paventa (almeno nel titolo) il rischio orwelliano di riscrittura della storia, Fulvio Sarzana espone le sue considerazioni su rischi e opportunità, e Alessandro Mantelero, infine, pone in risalto, quale aspetto più controverso, la complessità della valutazione degli interessi contrapposti.

I commenti meno legati al dato giuridico, sono decisamente più coloriti; c’è chi parla di una “baggianata inapplicabile”, e si possono leggere decine di elegie funebri dedicate alla morte della libertà d’informazione.

Le riflessioni sulla sentenza hanno animato le mailing list di diritto, tra cui (ovviamente) anche quella del Circolo.

In realtà, la sentenza (pur con delle criticità e delle evidenti complessità, che tratteremo più avanti), ha un grande pregio: quello di cancellare (si spera per sempre) l’idea che l’attività di un motore di ricerca (quando riguarda dati personali) non costituisca un trattamento di dati rilevante ai sensi della direttiva 95/46/CE e delle singole legislazioni nazionali (ove, naturalmente, il trattamento rientri nell’ambito territoriale di applicazione).

La sentenza, difatti, afferma a chiare lettere che il motore di ricerca è “responsabile” (nel senso della direttiva, e dunque “titolare” per il diritto italiano) del trattamento di indicizzazione, precisando che “il trattamento di dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di un motore di ricerca si distingue da e si aggiunge a quello effettuato dagli editori di siti web, consistente nel far apparire tali dati su una pagina Internet”, ed ancora, quanto all’ambito di applicazione, che “il trattamento di dati personali realizzato per le esigenze di servizio di un motore di ricerca come Google Search, il quale venga gestito da un’impresa con sede in uno Stato terzo ma avente uno stabilimento in uno Stato membro, viene effettuato «nel contesto delle attività» di tale stabilimento qualora quest’ultimo sia destinato a garantire, in tale Stato membro, la promozione e la vendita degli spazi pubblicitari proposti dal suddetto motore di ricerca, che servono a rendere redditizio il servizio offerto da quest’ultimo”.

La Corte quindi spazza via qualunque dubbio: anche i motori di ricerca rispondono del trattamento di dati personali da loro effettuato, in maniera autonoma e indipendente dal contenuto indicizzato.

Questa soluzione è, a ragion veduta, assolutamente coerente con le attuali modalità di fruizione della Rete: è il motore di ricerca che detta i contenuti, che indirizza il traffico, che costruisce (o distrugge) reputazioni, mediante l’aggregazione di diverse fonti. E allora perché dovrebbe godere di una irresponsabilità o di una extraterritorialità, quasi a volerla assimilare ad un’attività neutra, di mere conduit (quale quella prevista dalla direttiva 2000/31/CE)?

La sentenza, alla fine, è coerente con quest’assunto, ed è per questo che la Corte (con la stessa potenza del bambino di Andersen) spezza l’incantesimo, e ci fa vedere il Re nudo, o meglio gli mette addosso i panni che gli appartenevano fin dall’inizio, e cioè quelli del soggetto titolare di uno specifico trattamento, distinto da quello effettuato da chi immetta in rete i contenuti.

Ed anzi, è persino sorprendente che la Corte, che aveva descritto fin dal 2000 la natura del trattamento di dati personali in Rete, nella sentenza Lindqvist (non a caso citato in decisione) abbia impiegato così tanto tempo per arrivare alla conclusione che anche l’attività di un motore di ricerca rappresenti un trattamento di dati personali: la signora Lindqvist (una catechista di Alseda, in Svezia, precocemente telematica) e Google sono finalmente sullo stesso piano.

Veniamo ora alle questioni più critiche.

La sentenza, in maniera del tutto coerente con i presupposti già esaminati e con la lettera della direttiva europea, riconosce il diritto dell’interessato di opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, e il fatto che tale diritto può essere esercitato direttamente nei confronti del motore di ricerca, indipendentemente (e separatamente) dal suo esercizio nei confronti del soggetto autore della pubblicazione indicizzata.

E questo anche perché – nota la sentenza ancora una volta ribadendo qualcosa che sembra ovvio, ma che evidentemente sfugge ai paladini dell’incondizionata libertà dei motori di ricerca, – “un trattamento di dati personali […] effettuato dal gestore di un motore di ricerca, può incidere significativamente sui diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali, nel caso in cui la ricerca con l’aiuto di tale motore venga effettuata a partire dal nome di una persona fisica, dal momento che detto trattamento consente a qualsiasi utente di Internet di ottenere, mediante l’elenco di risultati, una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su Internet, che toccano potenzialmente una moltitudine di aspetti della sua vita privata e che, senza il suddetto motore di ricerca, non avrebbero potuto – o solo difficilmente avrebbero potuto – essere connesse tra loro, e consente dunque di stabilire un profilo più o meno dettagliato di tale persona”.

E in questo caso l’interesse economico del gestore al trattamento dei dati deve cedere il passo ai diritti e alle libertà dell’interessato.

Ci possono naturalmente essere riflessi sulla libertà dell’informazione, ma la Corte sottolinea che si debba ricercare un equilibrio tra i diritti della persona interessata e l’interesse della collettività a disporre delle informazioni, anche con riguardo al ruolo pubblico eventualmente rivestito.

Certo, si tratta di un bilanciamento né facile né immediato, ed il rischio di una pioggia torrenziale di richieste di de-indicizzazione non può essere sottovalutato: sarà delicato compito delle Autorità Garanti (e dei tribunali) definire in maniera adeguata questo bilanciamento.

Ma, francamente, pare che la decisione della Corte (oltre che illuminare di una luce particolare il cammino del Regolamento attualmente in discussione) faccia scricchiolare la prassi delle risposte automatizzate, nelle varie sedi europee, dei motori di ricerca, i quali (fino a ieri) non facevano altro che far rimbalzare, con ostentato fastidio, qualsiasi richiesta di rimozione.

Articolo originario sul sito del Circolo dei Giuristi Telematici alla pagina https://www.giuristitelematici.com/dettEditoriale.aspx?idDet=1839